La sindrome di Burnout nelle relazioni d’aiuto
Siamo negli anni ’30 quando per la prima volta viene utilizzato il termine Burnout per riferirsi ad una condizione osservata nel mondo dello sport da parte di alcuni atleti. Arriviamo al 1974 quando lo studioso Freudenberger in un articolo nel Journal of Social Issues si riferisce al Burnout definendola “una sindrome caratterizzata da esaurimento emotivo, depersonalizzazione e ridotta realizzazione personale che colpisce chi è impegnato nelle helping professions” quindi nelle professioni d’aiuto. Da allora, abbiamo dovuto aspettare quasi mezzo secolo perché il Burnout venisse riconosciuto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come “Problema associato alla professione” e inserito, dal 1 gennaio 2022, nella International Classification of Diseases (Icd-11) non come condizione medica ma come fattore occupazionale che influenza lo stato di salute o il ricorso ad assistenza sanitaria. Quarantotto anni prima che venisse, in parte, data visibilità e legittimato un malessere che vivono centinaia di migliaia di persone solo in Italia. Questa una delle riflessioni che condividevo con gli Assistenti Sociali di CSA con i quali stiamo portando avanti una formazione specifica sul tema. Formazione che ha tra i suoi scopi quello di conoscere il fenomeno, soprattutto dal punto di vista sintomatologico e dei risvolti emotivi, relazionali, comportamentali e psicologici, aiutando a fare una riflessione personale su dove ci si colloca rispetto all’argomento.
“La sindrome da Burnout è definita da Maslach e Leiter come un’erosione dell’anima, un deterioramento che colpisce i valori, la dignità, lo spirito e la volontà delle persone. Si tratta di un malessere psicofisico che porta ad assumere atteggiamenti freddi, inadeguati ed incompetenti nelle relazioni quotidiane, inoltre genera un senso di inutilità ed un aumento di disturbi psicosomatici che portano alla chiusura in sé stessi. Chi ne è colpito sente di essere senza via d’uscita, di non avere più uno spazio personale. Il soggetto affetto da tale sindrome sente di esaurirsi emotivamente, fisicamente ed anche psicologicamente”. (Quando aiutare stanca: l’assistente sociale e la sindrome da Burnout, Francesca Frasacco). Le tre dimensioni che caratterizzano questa sindrome complessa/multifattoriale sono profondamente intrecciate tra loro. Quando le richieste di lavoro aumentano smisuratamente o avvengono cambiamenti importanti a livello lavorativo, la persona è colpita da un profondo stress che genera un esaurimento vero e proprio. L’esaurimento genera a sua volta uno sfinimento mentale e fisico, incapacità di rilassarsi ecc. Nel tentativo di fronteggiare l’esaurimento e lo sconforto, la persona mette in atto atteggiamenti sterili, distaccati, superficiali e freddi verso le persone ed il lavoro (depersonalizzazione). In questo modo cerca di crearsi una protezione, una barriera, ma in realtà in questo modo contribuisce ad uno squilibrio psicofisico non indifferente, a perdere il proprio benessere e la propria capacità lavorativa. Lo squilibrio vissuto e la perdita di benessere porta alla sensazione di inefficienza, che in parte è realmente messa in atto con gli atteggiamenti di protezione/barriera. La persona si sente inutile e incapace, cala la sua autostima, le sue aspettative. Si ha una riduzione della realizzazione personale. Questo “filo conduttore” che aiuta a capire come il Burnout si evolve nel tempo si riscontra anche nei quattro stadi progressivi che lo caratterizzano: da una prima fase di entusiasmo idealistico si passa ad una successiva fase di stagnazione, poi alla fase più critica di frustrazione e infine alla fase di apatia, considerata la “morte professionale”.
Questo progressivo deteriorarsi di energia, aspettative, motivazioni, è probabilmente tanto più forte nelle relazioni d’aiuto perché sono ancora troppo connotate da una cultura di tipo assistenziale in cui la persona che lavora è vista non tanto come un professionista ma più come un benefattore devoto ad una causa/missione di salvezza in cui l’unica cosa che conta sono le difficoltà e i bisogni della persona da aiutare/salvare. In questo modo però non solo si trascurano i propri bisogni ma si rischia anche di innescare uno “pseudo-ragionamento” (che sembra avere un filo logico ma in realtà non lo ha) per cui l’impossibilità di poter aiutare tutti e trovare sempre una soluzione fa mettere in dubbio le proprie capacità.
Non ho fatto abbastanza, non sono stato abbastanza bravo, veloce, incisivo… e se non lo sono stato questa volta perché la prossima volta dovrebbe essere diverso? E se non sarà diverso perché allora continuare ad impegnarsi, a provarci, a lavorare…?
Si può in qualche modo capire a quali conseguenze può portare un “ragionamento” di questo tipo, non solo per la persona, ma a cascata per gli Utenti, per i Colleghi, per i Coordinatori, per l’organizzazione lavorativa in generale. Non dimentichiamo infatti che il Burnout non è un problema personale ma una condizione che deriva anche dalla relazione della persona con il contesto lavorativo e organizzativo in cui opera. Se l’organizzazione non riconosce l’aspetto umano del lavoro, il rischio di Burnout aumenta.
Quindi perché è importante conoscere e parlare di Burnout?
Perché lavorando nelle relazioni d’aiuto sei tu stessa/o lo strumento principale del tuo lavoro e dunque è importante promuovere la cura di te stessa/o.
Ma soprattutto perché, al di là del tuo lavoro, la tua salute e il tuo benessere sono importanti, tu sei importante ed è giusto prenderti cura di te.