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Sei Job Creeper, Quiet Quitter o solo felice?

Triste O Felice

Il Politecnico di Milano certifica che il 6% dei lavoratori è Job Creeper: non riesce a smettere di lavorare anche nei momenti della vita privata. Di contro, il 12% è Quiet Quitter, si limita cioè a fare il minimo indispensabile. Fenomeni diversi, che sono sintomo di un malessere diffuso: solo il 7% dei lavoratori è felice. Oggi, comunque, osservano gli esperti, il lavoro non è (più) una priorità.

Sono alcuni dei risultati della ricerca dell’Osservatorio HR Innovation Practice della School of Management del Politecnico di Milano, presentata l’11 maggio di quest’anno durante un convegno dedicato a “Vita, lavoro, felicità: disegnare una nuova relazione tra organizzazione e persone”.
Li ho trovati molto interessanti e credo possano essere motivo di riflessione. Per questo, mi sembra utile condividerli sulla nostra Rivista.

In Italia, complessivamente, il 46% dei lavoratori ha cambiato lavoro negli ultimi 12 mesi o ha intenzione di farlo; una percentuale che raggiunge il 77% per gli under 27. E il 55% di chi dice di voler cambiare lavoro sta già facendo colloqui. Ma non tutti quelli che lo hanno fatto hanno trovato quel che cercavano: il 41% si è pentito della scelta fatta. Si tratta del fenomeno conosciuto negli Stati Uniti come “Great Regret”, che in Italia caratterizza maggiormente gli uomini e le persone con più di 50 anni di età.

Quiet Quitter: faccio il minimo indispensabile.
Ben il 12% dei lavoratori italiani (circa 2,3 milioni di lavoratori) oggi si limita a fare il minimo indispensabile e non è coinvolto emotivamente nelle attività lavorative, perché non si sente valorizzato nei propri talenti e ha deciso di “spegnersi”, utilizzando al minimo le proprie energie sul lavoro. Si chiama quiet quitting, traducibile come “licenziarsi in silenzio” o, più liberamente, “licenziarsi senza licenziarsi”. Senza puntare alla performance, si valorizza la propria vita privata a scapito di quella professionale. In pratica, ci si limita a svolgere soltanto le mansioni richieste. Né più, né meno. Un approccio che parte da un concetto più che dignitoso e condivisibile – quello che ci porta a considerare la vita privata al primo posto rispetto al lavoro – ma di per sé molto rischioso in quanto potrebbe condurre gradualmente ad un disinvestimento rispetto al posto di lavoro e ad un disinteresse verso i valori aziendali, evitando comportamenti di semplice cooperazione spesso fondamentali in qualsiasi attività di gruppo.

Job Creeper: non riesco a smettere.
All’estremo opposto, c’è un 6% (circa 1,1 milioni di lavoratori) di Job Creeper, che non riesce a smettere di lavorare, anche nei momenti in cui ci si dovrebbe dedicare alla vita privata. È il profilo di colui che cerca autonomia e flessibilità nel lavoro; ha un livello di engagement più alto della media, ma i ritmi e i carichi di lavoro sovrastano la sua sfera privata.

Solo il 7% è felice, il dato forse più drammatico.
Oggi solo il 7% dei lavoratori (circa 1,3 milioni) dichiara di essere “felice”. E solo l’11% sta bene su tutte e tre le dimensioni del benessere lavorativo: psicologica, relazionale e fisica. L’aspetto più critico è quello psicologico: il 42% dei lavoratori ha avuto almeno un’assenza nell’ultimo anno per malessere psicologico e/o relazionale.

In merito a questo dato sull’infelicità, nel mio piccolo, mi accorgo di un atteggiamento piuttosto diffuso che attribuisce l’origine della propria infelicità a condizioni esterne da sé stessi: “Il collega non collabora”, “Il mio Responsabile non riconosce il mio valore”, “Il carico di lavoro è eccessivo”, “Non mi comunicano mai nulla”, ecc ecc.

Possono essere anche tutte questioni realmente presenti sul nostro posto di lavoro, ma davvero noi ci aspettiamo che la nostra personale felicità possa dipendere da fattori esterni a noi?
Se così è, siamo destinati ad una vita di eterna infelicità. Questo vale per il lavoro come nelle relazioni interpersonali, nello sport, nelle passioni che coltiviamo, in ogni ambito della nostra vita.
La chiave di volta è da ricercare nel nostro personale atteggiamento che dovremmo sforzarci di rendere positivo, propositivo, costruttivo.
E allora dovremmo chiederci: “Come posso coinvolgere maggiormente il collega che non collabora? Forse si sente solo un po’ demotivato”, “Penso che il mio Responsabile non riconosca il mio valore. Ma io in che modo gli restituisco i risultati del mio lavoro?”, “Il carico di lavoro è eccessivo, ho provato a condividere la mia paura di sbagliare e a cercare supporto negli altri? Magari mi accorgo che non tutto dipende da me e che posso anche organizzarmi diversamente.”, “Non mi comunicano mai nulla o forse sono io ad avere un atteggiamento poco interessato?”.

Qualcuno un giorno mi ha detto che bisogna sforzarsi di trasformare il momento di crisi in una opportunità. Ebbene, io non rientro in quel 7% perché è opportuno che io sia felice. E tu?

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