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Mercato del lavoro: a che punto siamo?

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Il nuovo Governo sta cercando di apportare modifiche per far fronte ad un mercato del lavoro sempre più problematico.
C’è un decreto in programma per «dare più flessibilità e meno burocrazia alle aziende e più sicurezza ai lavoratori».
Come ha confermato il sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon, dopo la reintroduzione dei voucher, il Governo si sta preparando a modificare anche l’impianto del Decreto Dignità, approvato nel 2018 durante il Conte I, che prevedeva la diminuzione del numero e della durata delle proroghe dei contratti a tempo determinato per ridurre la precarietà lavorativa. Perché, «le causali imposte dal Decreto sono troppo restrittive e non esaustive delle esigenze dei singoli settori produttivi. La proposta è di prevedere per legge l’acausalità dei contratti a termine per 24 mesi e poi lasciare alla contrattazione collettiva e aziendale l’estensione fino a 36 mesi.».
Significa, secondo qualche economista, invece, favorire la precarietà, lo sfruttamento e l’emigrazione dei più giovani dall’Italia alla ricerca di un settore occupazionale in grado di garantire almeno il rispetto della dignità. Significa che lo Stato smetterà di mediare tra gli interessi del privato e del pubblico mettendo a rischio anche i pilastri della vita democratica che sono partecipazione, libertà e tutela della pace sociale. In quest’ottica i lavoratori rischiano di diventare un prodotto a uso e consumo del mercato perché non si può parlare di “esistenza libera e dignitosa”, come ci chiede la Costituzione, quando sette lavoratori su dieci hanno contratti precari.
Secondo gli ultimi dati dell’Inapp, l’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche, infatti, sette su dieci nuovi contratti sono a tempo determinato, l’11,3 per cento dei lavoratori lavora part-time senza averlo scelto, il 10,8 per cento degli occupati è sotto la soglia di povertà. E l’Italia è l’unico Paese dell’area Ocse in cui il salario medio annuale è diminuito (del 2,9 per cento) negli ultimi trent’anni.
Il 35 per cento dei lavoratori atipici nel nostro Paese trova un lavoro stabile nei successivi tre anni.
In Spagna, al contrario, la riforma del lavoro ha sfavorito il ricorso ai contratti precari che, infatti, sono crollati dal 30 al 15,6 per cento, a favore dei contratti a tempo indeterminato soprattutto per i più giovani. E di una ripresa del settore occupazione.
Come ricorda il rapporto pubblicato lo scorso novembre dalla Fondazione Migrantes, sono 5,8 milioni gli italiani che vivono all’estero, iscritti all’Aire. Per la maggior parte giovani (18-34 anni) o giovani adulti (35-49 anni) che hanno deciso di lasciare l’Italia per cercare di migliorare il proprio status «durante il corso della vita accedendo a un lavoro certo, qualificato e abilitante». Perché la via per l’estero si presenta come l’unica scelta da adottare per raggiungere l’autonomia finanziaria, il benessere o avere opportunità lavorative e creare una famiglia. “Così ci si trova di fronte a un’Italia demograficamente in caduta libera se risiede e opera all’interno dei confini nazionali e un’altra Italia, sempre più attiva e dinamica, che però guarda quegli stessi confini da lontano”, si legge nell’analisi della Fondazione Migrantes.
Anche perché c’è un ulteriore ricatto a cui anni di politiche disastrose per il mondo del lavoro hanno portato: favorire la penetrazione mafiosa nei luoghi del Paese dove lo Stato non garantisce più servizi e lavoro.
Si intendono spazi che la politica chiama “periferie”. Qui le mafie spesso diventano l’unica risposta a chi vuole trovare un lavoro. Abbiamo bisogno di misure che riducano le disuguaglianze e favoriscano la giustizia sociale. “Perché è la precondizione per sconfiggere le mafie”, come ricordava Peppino Impastato, giornalista assassinato dalla mafia.

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